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Una giornata monastica all'Abbazia del Barroux


Creati per la bellezza

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È sufficiente che la bellezza sfiori
appena il nostro tedio,
perché il cuore ci si laceri come seta
tra le mani della vita.
Nicolás Gómez Dávila (1913-1994)

Esce domani in libreria il libro di Stefano Chiappalone, Alle origini della bellezza, Cantagalli, Siena 2016, 104 pp., euro 8, dal quale riproduciamo qui di seguito un brano (pp. 20-22), con il cortese permesso dell’autore. Come Chiappalone ricorda nell’introduzione, si tratta di «“appunti di pellegrinaggio” [che] scaturiscono da riflessioni nate nell’ambito dell’apostolato culturale di Alleanza Cattolica, grazie alle sollecitazioni di amici, maestri e compagni di viaggio, a cominciare da Giovanni Cantoni, fondatore [...] dell’associazione. L’idea di raccoglierli in questo breve libro è invece del tutto personale ma sempre nell’intento di portare un piccolo contributo a quella grande avventura della Nuova Evangelizzazione, richiamata con crescente insistenza dagli ultimi pontefici e che, nel nostro caso, si traduce nello sforzo di edificare“una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio”, secondo una nota espressione di San Giovanni Paolo II (1978-2005)» (p. 7). Di Stefano Chiappalone, su Romualdica abbiamo pubblicato nel 2010 La bellezza della liturgia Due passi nelleternità, e nel 2011 Benedetto e la bellezza.


L’arte cristiana è densa di simboli, “inventati” da Dio stesso nella creazione e nella rivelazione: il pesce non è più solo un animale vertebrato che vive in acqua, ma diventa il simbolo di Cristo (con allusione anche al miracolo dei pani e dei pesci): Ιχθυς [pesce, in greco] è l’acrostico di ‘Ιησοũς Χριστός Θεoũ Υιός Σωτήρ [Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore]. Il pellicano diviene simbolo di Cristo che si sacrifica per nutrirci. Il corallo e il pettirosso rinviano alla Passione. Per non parlare dell’Agnello, figura centrale nel Libro dell’Apocalisse. L’albero non è più un albero e basta, ma l’albero della vita che stava nell’Eden (Gn 2,9) e anche l’Albero della nuova vita, cioè il legno della croce; ma anche l’albero il cui frutto è promesso come premio per la vita eterna (Ap 2,7). A tale proposito è significativo l’accostamento dell’Albero della Croce con l’Ultima cena, nell’opera di Taddeo Gaddi (1300-1366) nel Cenacolo di Santa Croce a Firenze. Le ali degli uccelli, cosa sono se non un simbolo della natura spirituale degli angeli, onnipresenti nelle decorazioni delle nostre chiese? Le chiavi, simbolo del potere di Pietro. In un mondo sacramentale ogni aspetto della realtà è un “link” (in effetti, symbolon significa proprio “collegamento”) dalle cose visibili a quelle invisibili: dal trifoglio, di cui – stando alla leggenda – S. Patrizio si servì per far capire la Trinità, fino all’oro delle icone, che si riferisce a una luce divina che neanche il celeste riesce più ad esprimere.
«Non a caso – scriveva lo studioso e sacerdote russo Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – le antiche testimonianze chiamano i sommi maestri della pittura d’icone filosofi, benché nel senso della teoria astratta essi non abbiano scritto una sola parola. Ma con le luminose visioni celesti, questi pittori d’icone testimoniarono del Verbo incarnato con le dita delle mani e veracemente filosofarono coi colori» [1].
Nella liturgia (e non dimentichiamo che tanta arte cristiana è nata per la liturgia e in funzione di essa), dove si inaugura «una vera e propria ecologia escatologica»[2](l’efficace definizione è del benedettino francese François Cassingena-Trévedy) si raggiunge il culmine di questa sacralizzazione del mondo: dagli alberi e al bestiame, che i salmi cosmici chiamano alla lode universale, al fuoco, l’acqua, l’olio, fino al pane e al vino che diventano realmente ciò che significano, Corpo e Sangue di Cristo: tutto acquista un nuovo senso, inaugurando la nuova Creazione.

[1] Pavel Aleksandrovič Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, trad. it., Adelphi, Milano 2007, pp. 174-175.
[2] François Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia, trad. it., Qiqajon, Magnano 2003, p. 90.

Un dono nell’attesa della solennità di san Benedetto: l’Officium Parvum S. Benedicti

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Come i nostri lettori più attenti ormai sanno,  a partire dal Natale 2014 - con il prezioso aiuto di valenti amici cui rinnoviamo tutta la nostra gratitudine - abbiamo messo progressivamente a disposizione dei lettori di Romualdica i testi del Breviarium monasticum del 1963 (secondo il codice delle rubriche del 1960), in latino con traduzione italiana a fronte. A tutt’oggi sono disponibili i seguenti uffici monastici: la Compieta; i Vespri domenicali; l’Ora Terza settimanale; l’Ora Sesta settimanale; l’Ora Nona settimanale.
Avvicinandosi ora la solennità di san Benedetto dell11 luglio, in vista della quale inizia oggi la novena, abbiamo ritenuto di mettere a disposizione degli amici di Romualdica - in prima edizione italiana, nella presente versione - il Piccolo Ufficio di san Benedetto (Officium Parvum S. Benedictiex Clm 4927 fol. 187r), in latino con traduzione italiana a fronte, il cui originale in lingua latina è reperibile in appendice allopera di Dom Bruno Albers O.S.B. (ed.), Consuetudines Monasticae, vol. II, Consuetudines Cluniacenses Antiquiores necnon Consuetudines Sublacenses et Sacri Specus, Montecassino 1905, pp. 227-228. Il fascicolo è disponibile in formato pdf al seguente link, oppure tramite la finestra qui in basso.


Detestare i vizi

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San Benedetto chiede al Padre Abate che “detesti i vizi” (RB LXIV, 11) e di lottare nei tempi opportuni e non opportuni contro il peccato. Come comprendere questo insegnamento alla luce della misericordia, che pure san Benedetto esige dall’abate sia fatta trionfare?
Per iniziare, occorre ammettere che i padri del deserto, e san Benedetto – loro fedele successore –, hanno fatto di questa lotta continua un elemento essenziale del loro percorso di conversione. La pazienza di Dio è presentata come un invito divino a convertirsi, e quindi a lottare contro le proprie colpe. Il codice penitenziale della Regolaè molto stretto: ogni mormorazione, ritardo, negligenza, stonatura, dev’essere combattuta, corretta e riparata da una degna soddisfazione. Il modello del monaco è l’eremita, colui che è capace, con l’aiuto di Dio, di affrontare con sicurezza la lotta contro i vizi della carne e dello spirito. Nel quarto capitolo della Regola, intitolato “Gli strumenti delle buone opere”, su 72 comandi, 50 sono negativi – “non dare sfogo all’ira” (RB IV, 22), “non giurare per evitare spergiuri” (RB IV, 27), ecc. –, come se la lotta contro i vizi sia più importante dei precetti positivi.
Ma come fare per detestare i vizi cristianamente, senza cadere punto nell’odio?
È chiaro che per san Benedetto l’anima di ogni conversione è la luce divina: “aprendo gli occhi a quella luce divina” (RB Prologo, 9). Nella nostra personale conversione, se è cosa buona avere paura dell’inferno, è più essenziale desiderare la vita eterna con tutto l’ardore della propria anima. Se è cosa buona vivere sotto lo sguardo di Dio al quale nulla, alcuna azione, nessun pensiero, nessun desiderio sfugge, è più fondamentale essere ben persuasi che prima che noi lo invochiamo, il Signore dice: “Io sono là”. Sì, è là per guidarci, illuminarci, aiutarci. Se è cosa buona piangere i propri peccati e confessarli a un anziano, ciò è alla condizione di non disperare mai della misericordia di Dio.
E ai superiori in cura d’anime – i vescovi, i preti, gli abati, i padri e le madri di famiglia – san Benedetto dà certamente la missione di lottare contro i vizi, le colpe dei temperamenti e le mancanze.
È una missione sacra per la quale il superiore dovrà rendere conto nel giorno del Giudizio. Egli subirà un esame non soltanto a riguardo dello stato della sua anima, ma anche delle anime a lui affidate dal Signore. Che egli corregga pensando sempre alla parabola della pagliuzza e della trave. Che la preoccupazione degli affari altrui lo renda più attento ai propri. Che egli si adatti a tutti i temperamenti. Che egli pensi a correggere progressivamente. Prima di reprimere, che non dimentichi d’istruire. La scelta di un superiore dovrà sempre farsi sull’esame della sua dottrina e del merito della sua vita. Quanti poveri fedeli sono nell’ignoranza a causa dell’assenza d’insegnamento, o peggio ancora, del peccato d’eresia da parte del clero! È un grave peso, un vero lavoro, quello di trovare le giuste parole. Parafrasando l’espressione di san Paolo, è un “partorire di nuovo” (cfr. Gal 4, 19).
Infine, se è cosa buona che il superiore cerchi di farsi temere, egli deve prima di tutto cercare di farsi amare, in ragione del nome stesso che egli porta: “Padre”. Lo avete sicuramente compreso, se è cosa buona detestare i vizi, ciò è unicamente per il fine superiore di amare i propri fratelli.

[Dom Louis-Marie Geyer d’Orth O.S.B., abate del monastero Sainte-Madeleine di Le Barroux, editoriale di Les amis du monastère, n. 158, 21 giugno 2016, pp. 1-2, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

Verso un’autentica messa in opera di Sacrosanctum Concilium

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[…] Alla luce degli auspici fondamentali dei Padri del Concilio [Vaticano II] e delle varie situazioni che abbiamo visto affiorare dopo il Concilio, vorrei presentare alcune considerazioni pratiche quanto al modo di mettere in opera più fedelmente Sacrosanctum Concilium nel contesto attuale. Sebbene io mi trovi alla guida della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, lo faccio in tutta umiltà, come sacerdote e come vescovo, nella speranza che esse susciteranno studi e riflessioni mature, come pure buone pratiche liturgiche, ovunque nella Chiesa.
Non vi sorprenderete se raccomando che possiamo anzitutto esaminare la qualità e la profondità della nostra formazione liturgica, la maniera con cui abbiamo aiutato il clero, i religiosi e i laici a impregnarsi dello spirito e della forza della liturgia. […] La formazione liturgica è anzitutto ed essenzialmente un’immersione nella liturgia, nel mistero profondo di Dio, nostro Padre beneamato. Si tratta di vivere la liturgia in tutta la sua ricchezza, d’inebriarsene bevendo a una fonte che non estingue mai la nostra sete per le sue delizie, le sue leggi e la sua bellezza, il suo silenzio contemplativo, la sua esultazione e adorazione, il suo potere di legarci intimamente a Colui che è all’opera nei e per i sacri riti della Chiesa.
Ecco perché coloro che sono in “formazione” per il ministero pastorale dovrebbero vivere la liturgia quanto più pienamente possibile nei seminari e nelle case di formazione. I candidati al diaconato permanente dovrebbero essere immersi in un’intensa vita di preghiera liturgica per un tempo prolungato. Aggiungo che la celebrazione piena e ricca della forma antica del rito romano, l’usus antiquior, dovrebbe costituire una parte importante della formazione liturgica del clero. Senza di ciò, come iniziare a comprendere e a celebrare i riti riformati nell’ermeneutica della continuità, se non si è mai fatta l’esperienza della bellezza della tradizione liturgica che conobbero gli stessi Padri del Concilio e che ha forgiato così tanti santi durante i secoli? Una saggia apertura al mistero della Chiesa e alla sua ricca tradizione plurisecolare, e un’umile docilità a ciò che lo Spirito Santo dice oggi alle Chiese, sono un vero segno che noi apparteniamo a Gesù Cristo: “Ed egli disse loro: ‘Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche’” (Mt 13,52). […]
Secondariamente, ritengo si debba essere chiari a proposito della partecipazione alla liturgia, la participatio actuosa come l’ha chiamata il Concilio. Ciò ha generato molta confusione nel corso degli ultimi decenni. L’articolo 48 della costituzione sulla sacra liturgia dice che “la Chiesa si preoccupa […] che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente”. Per il Concilio, la partecipazione è anzitutto interiore, ottenuta “comprendendolo bene [il mistero dell’Eucaristia] nei suoi riti e nelle sue preghiere”. La vita interiore, la vita sprofondata in Dio e intimamente abitata da Dio, è la condizione indispensabile a una partecipazione fruttuosa e feconda ai santi misteri, che celebriamo nella liturgia. La celebrazione eucaristica dev’essere essenzialmente vissuta dall’interno. È all’interno di noi che Dio desidera incontrarci. […]
Se comprendiamo la priorità d’interiorizzare la nostra partecipazione liturgica, eviteremo il rumoroso e pericoloso attivismo liturgico che s’incontra troppo spesso negli ultimi decenni. Non andiamo alla Messa per dare spettacolo, ma per unirci all’azione di Cristo attraverso un’interiorizzazione dei riti, preghiere, segni e simboli che fanno parte dei riti esteriori. Noi sacerdoti, potremmo ricordarcene più spesso degli altri, visto che la nostra vocazione è il servizio liturgico! Noi dobbiamo altresì formare gli altri, in particolare i bambini e i giovani, all’autentico significato della partecipazione, al modo di pregare la liturgia. […]
In terzo luogo […], io non ritengo che si possa squalificare la possibilità o l’opportunità di una riforma ufficiale della riforma liturgica. I suoi promotori avanzano delle considerazioni giudiziose nel loro tentativo di essere fedeli all’auspicio del Concilio espresso nell’articolo 23 della costituzione, in cui si propone di “conservare la sana tradizione e aprire nondimeno la via ad un legittimo progresso”. Occorrerà sempre iniziare con un accurato studio teologico, storico, pastorale, affinché “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”.
Onde supportare quanto detto, desidero aggiungere che quando sono stato ricevuto in udienza dal Santo Padre lo scorso aprile, Papa Francesco mi ha chiesto di studiare la questione di una riforma della riforma e il modo in cui le due forme del rito romano si possono arricchire reciprocamente. Sarà un lavoro lungo e delicato e vi chiedo la pazienza e l’assistenza delle vostre preghiere. Se vogliamo mettere in opera più fedelmente Sacrosanctum Concilium, se vogliamo realizzare ciò che il Concilio auspicava, è una questione che dev’essere studiata con attenzione ed esaminata con la chiarezza e la prudenza richieste, nella preghiera e nella sottomissione a Dio. […]
Voglio lanciare un appello a tutti i sacerdoti. Forse avete letto il mio articolo su L’Osservatore Romano di un anno fa (12 giugno 2015) o la mia intervista al giornale Famille Chrétienne nel mese di maggio di quest’anno. In ogni occasione, ho detto che è di primaria importanza ritornare il più presto possibile a un orientamento comune dei sacerdoti e dei fedeli, rivolti insieme nella medesima direzione – verso Est, o perlomeno verso l’abside –, verso il Signore che viene, in tutte le parti del rito in cui ci si rivolge al Signore. Questa pratica è permessa dalle regole liturgiche attuali. Ciò è perfettamente legittimo nel nuovo rito. In effetti, penso che una tappa cruciale è di fare in modo che il Signore sia al centro delle celebrazioni.
Pertanto, cari fratelli nel sacerdozio, vi chiedo umilmente e fraternamente di mettere in opera questa pratica ovunque sia possibile, con la prudenza e la pedagogia necessarie, ma anche con la certezza, in quanto preti, che è una buona cosa per la Chiesa e per i fedeli. La vostra valutazione pastorale determinerà come e quando ciò sarà possibile, ma perché eventualmente non cominciare la prima domenica di Avvento di quest’anno, quando noi attendiamo il “Signore [che] viene senza tardare” (cfr. l’introito del mercoledì della prima settimana di Avvento)? Cari fratelli nel sacerdozio, prestiamo orecchio alle lamentazioni di Dio proclamate dal profeta Geremia: “A me rivolgono le spalle, non la faccia” (Ger 2,27). Rivolgiamoci di nuovo verso il Signore! Dal giorno del suo battesimo, il cristiano non conosce che una direzione: l’Oriente. Ci ricorda sant’Ambrogio: “Tu sei dunque entrato per guardare il tuo avversario, al quale hai deciso di rinunciare faccia a faccia, e ora ti volgi verso l’Oriente (ad Orientem); poiché colui che rinuncia al diavolo si volge verso il Cristo, lo guarda dritto negli occhi” (Sant’Ambrogio, De Mysteriis). […]

[Estratto della conferenza di S.Em. il card. Robert Sarah, Prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, “Towards an Authentic Implementation of Sacrosanctum Concilium” (versione ufficiale in lingua francese della conferenzaqui), svolta il 5 luglio 2016 nel corso del Convegno Sacra Liturgia 2016 (Londra, UK, 5-8 luglio 2016), trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

Oggi ci vorrebbe un nuovo movimento liturgico

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Recentemente un giovane sacerdote mi ha detto: “Oggi ci vorrebbe un nuovo movimento liturgico”. Si tratta dell’espressione di una preoccupazione, che in questi tempi solo degli spiriti volontariamente superficiali potrebbero scartare. Ciò che importava a questo sacerdote, non era di conquistare nuove e audaci libertà: quali libertà non ci siamo già arrogati? Egli sentiva che abbiamo bisogno di un nuovo inizio, che sgorghi dall’intimo della liturgia, come l’aveva voluto il movimento liturgico quando si trovava all’apice della sua autentica natura, quando non si trattava di fabbricare testi, d’inventare azioni e forme, ma di riscoprire il centro vivente, di penetrare nel tessuto propriamente detto della liturgia, affinché l’adempimento di questa fuoriesca dalla sua stessa sostanza. La riforma liturgica, nella sua concreta realizzazione, si è allontanata sempre più da questa origine. Il risultato non è stata una rianimazione, ma una devastazione. Da una parte, si ha una liturgia degenerata in “show”, nella quale si cerca di rendere la religione interessante mediante sciocchezze alla moda e massime morali seducenti, con dei successi momentanei nel gruppo dei fabbricanti di liturgia, e un’attitudine all’arretramento tanto più pronunciata presso coloro che cercano nella liturgia non lo “showmaster” spirituale, ma l’incontro con il Dio vivente davanti al quale ogni “fare” diventa insignificante, essendo solo questo incontro capace di farci accedere alle autentiche ricchezze dell’essere. D’altro canto, c’è la conservazione di forme rituali la cui grandezza emoziona sempre, ma che, spinte all’estremo, manifestano un isolamento ostinato e alla fine non lasciano altro che tristezza. Certo, tra i due rimangono tutti i sacerdoti e i loro parrocchiani che celebrano la nuova liturgia con rispetto e solennità; ma costoro vengono messi in discussione dalla contraddizione tra i due estremi, e la mancanza di unità interna nella Chiesa alla fine fa apparire la loro fedeltà, a torto per molti di loro, come una semplice variante personale di neo-conservatorismo. Poiché le cose stanno così, è necessario un nuovo impulso spirituale affinché la liturgia sia di nuovo per noi un’attività comunitaria della Chiesa, e che sia strappata all’arbitrio dei curati e delle loro équipeliturgiche.
Non si può “fabbricare” un movimento liturgico di questo genere – non più di quanto si possa “fabbricare” qualcosa di vivente –, ma si può contribuire al suo sviluppo sforzandosi di assimilare nuovamente lo spirito della liturgia e difendendo pubblicamente ciò che si è ricevuto. Questo nuovo inizio ha bisogno di “padri” che siano dei modelli e che non si accontentino d’indicare la strada da seguire. Chi cerca oggi tali “padri” incontrerà immancabilmente la persona di mons. Klaus Gamber [1919-1989], che ci è stato purtroppo portato via troppo presto, ma che forse, precisamente nell’abbandonarci, ci è divenuto autenticamente presente in tutta la forza delle prospettive che ci ha dischiuso. Proprio perché lasciandoci sfugge alla diatriba delle parti, egli potrebbe in questo momento di sconforto, diventare il “padre” di un nuovo inizio. Gamber ha portato con tutto il suo cuore la speranza dell’antico movimento liturgico. Senza dubbio, venendo da una scuola straniera, è rimasto un “outsider” sulla scena tedesca, dove non lo si voleva veramente accogliere; ancora di recente una tesi ha incontrato difficoltà importanti perché la giovane ricercatrice aveva osato citare Gamber troppo estesamente e con troppa benevolenza. Ma forse questo essere messo da parte è stato provvidenziale, perché ha costretto Gamber a seguire la propria strada e gli ha evitato il peso del conformismo.
È difficile esprimere in poche parole ciò che, nella disputa tra i liturgisti, è veramente essenziale e ciò che non lo è. Forse la seguente indicazione potrà risultare utile. Josef Andreas Jungmann S.J [1889-1975], uno dei veri grandi liturgisti del secolo XX, aveva definito a suo tempo la liturgia, tale quale la s’intendeva in Occidente rappresentandola soprattutto attraverso la ricerca storica, come una “liturgia frutto di uno sviluppo”; probabilmente anche per contrasto con la nozione orientale, che non vede nella liturgia il divenire e la crescita storici, ma solo il riflesso della liturgia eterna, la cui luce, attraverso lo svolgimento sacro, illumina il nostro tempo mutevole con la propria bellezza e la sua grandezza immutabili. Le due impostazioni sono legittime e, in definitiva, non sono inconciliabili. Ciò che è avvenuto dopo il Concilio significa tutt’altro: al posto della liturgia frutto di uno sviluppo continuo, è stata messa una liturgia fabbricata. Si è usciti dal processo vivente di crescita e di sviluppo per entrare nella fabbricazione. Non si è più voluto proseguire il divenire e la maturazione organici del vivente attraverso i secoli, e li si è rimpiazzati – come se si trattasse di una produzione tecnica – con una fabbricazione, prodotto banale del momento. Gamber, con la vigilanza di un autentico veggente e con il coraggio di un autentico testimone, si è opposto a questa falsificazione e ci ha insegnato instancabilmente la viva pienezza di un’autentica liturgia, grazie alla sua conoscenza incredibilmente ricca delle fonti. Uomo che conosceva e amava la storia, egli ci ha mostrato le molteplici forme del divenire e del percorso della liturgia; uomo che vedeva la storia dall’interno, egli ha visto in questo sviluppo e nei frutti di esso il riflesso intangibile della liturgia eterna, che non è oggetto del nostro fare, ma che può continuare meravigliosamente a maturare e fiorire, se ci uniamo intimamente al suo mistero. La morte di quest’uomo e sacerdote eminente dovrebbe stimolarci; la sua opera potrebbe aiutarci a prendere un nuovo slancio.

[Card. Joseph Ratzinger, in Klaus Gamber, La réforme liturgique en question, trad. fr., Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1992, pp. 6-8]

Grazie a Dio per l'Abbazia Sainte-Madeleine di Le Barroux

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Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Maríæ Magdalénæ : de cuius sollemnitáte gaudent Angeli, et colláudant Fílium Dei. V. Ps. 44,2 Eructávit cor meum verbum bonum : dico ego ópera mea regi. Glória...


Conversi ad Dominum

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Nella Chiesa primitiva e durante il Medioevo, fu norma rivolgersi a oriente durante la preghiera. Dice sant’Agostino: “Quando ci alziamo in piedi per la preghiera, ci volgiamo a oriente, da dove s’innalza il cielo, non come se ivi soltanto fosse Dio, e avesse abbandonato le altre parti del mondo (...), ma perché lo spirito si innalzi a una natura superiore, ossia a Dio”.
Queste parole del Padre africano mostrano che i cristiani, dopo l’omelia, si alzavano per la preghiera successiva e si volgevano a oriente. A quest’atto allude sempre Agostino concludendo le sue omelie con la formula fissa conversi ad Dominum (“rivolti al Signore”).
Il Dölger, nel suo fondamentale Sol salutis, ritiene che anche la risposta del popolo Habemus ad Dominum, all’invito del celebrante Sursum corda, implichi l’essere rivolti a oriente, tanto più che alcune liturgie orientali esigono che ciò effettivamente sia, dopo l’invito del diacono.
Ciò vale per la Liturgia copta di Basilio, dove all’inizio dell’anafora si dice: “Venite, uomini, state in adorazione e guardate a oriente”, e per la Liturgia egiziana di Marco, dove un analogo invito – “Guardate a oriente” – viene dato nel corso della Preghiera eucaristica, ossia prima del Sanctus.
Nella breve esposizione del rituale liturgico contenuta nel libro II delle Costituzioni apostoliche (fine del secolo IV), è prescritto di alzarsi in piedi per la preghiera e di volgersi a oriente. Nel libro VIII viene riportato un equivalente invito del diacono: “State in piedi rivolti al Signore”. Nella Chiesa primitiva, pertanto, volgersi al Signore e guardare a oriente erano la stessa cosa.
L’usanza di pregare rivolti al punto in cui sorge il sole è antichissima, come il Dölger ha dimostrato, e comune a ebrei e gentili. I cristiani l’adottarono ben presto. Già nel 197, la preghiera verso oriente è per Tertulliano una cosa normale. Nel suo Apologeticum (cap. XVI), egli riferisce che i cristiani “pregano nella direzione in cui sorge il sole”.
Allora nelle case si indicava la direzione della preghiera a mezzo di una croce incisa nel muro. Una croce del genere è stata ritrovata a Ercolano in una camera al primo piano di una casa sepolta dall’eruzione del Vesuvio nell’anno 79.
Ora esaminiamo l’orientamento del celebrante e dei fedeli durante la messa. In fondo si tratta del problema se è mai esistita, agli albori del cristianesimo, una celebrazione versus populum (verso il popolo) come oggi si pretende di sostenere.
O. Nußbaum, dopo un lungo esame dedicato alla questione in Il posto del liturgo all’altare cristiano (1965) espone così il problema: “Coll’erezione di edifici specialmente riservati al culto, non si è adottata alcuna regola severa per stabilire da quale parte dell’altare doveva trovarsi il posto del liturgo. Succedeva che l’occupava spesso davanti all’altare e anche spesso dietro” (p. 408). Nußbaum nutre tuttavia la convinzione che si preferiva la celebrazione verso il popolo fino al VI secolo. Ma questa sua opinione è talmente errata che non è possibile sostenerla né accettarla.
Egli infatti non distingue la differenza che esiste fra le chiese dall’abside verso l’est e altre che hanno l’abside diretta verso ponente e, quindi, l’ingresso dalla parte orientale. Quest’ultimo orientamento si trova per di più soltanto in basiliche del IV secolo e anche qui in primo luogo in quelle edificate da Costantino o da sua madre Elena.
Già all’inizio del V secolo san Paolino da Nola chiama usuale (usitatior) le abside dalla parte orientale (ep. 32,15).
Troviamo basiliche con ingresso verso oriente soprattutto a Roma (il Laterano e S. Pietro) e nell’Africa del nord, mentre esse scarseggiano in Oriente. Trattandosi di edifici con la porta di ingresso rivolta verso oriente, si può dire che essi seguivano l’esempio del Tempio di Gerusalemme e dei maggiori templi antichi.
Nelle basiliche dall’ingresso verso oriente il celebrante era costretto a tenersi regolarmente dalla parte di dietro dell’altare per garantire l’orientamento verso est durante l’offerta del santo sacrificio; al contrario nelle chiese dall’abside verso l’est, il sacerdote doveva necessariamente tenersi davanti l’altare (ante altare) volgendo le spalle ai fedeli. Ora la nostra domanda deve porsi così: dov’era il posto dei fedeli nelle basiliche (costantiniane) con l’abside rivolto verso ponente?
Durante il Canone della messa, non solo il sacerdote ma anche i fedeli stavano rivolti verso oriente. Vale a dire che i fedeli stavano anch’essi rivolti verso oriente, guardando in direzione delle porte della chiesa, tenute aperte, attraverso le quali filtrava la luce del sole simbolo di Cristo risorto.
Durante la celebrazione della eucaristia, nemmeno nelle basiliche menzionate il popolo e il sacerdote non stavano mai di faccia. I fedeli – separati gli uomini dalle donne – prendevano posto nelle navate laterali. Le grandi basiliche ne possedevano fino a sei (il Laterano e S. Pietro ne hanno quattro). Questa disposizione corrisponde ai posti a sedere che si trovano nelle piccole chiese paleocristiane, un uso che continua a esistere ancora nelle chiese dell’Oriente. Anche qui la navata centrale rimane libera, i fedeli anziani siedono sui sedili lungo le pareti laterali e nelle navate mentre la maggior parte dei fedeli rimane in piedi.
Nelle basiliche costantiniane, e qualche volta anche nelle chiese africane, tutta quanta la navata centrale serviva allo svolgimento delle funzioni ed era a disposizione del sacerdote e della schola cantorum, come dimostrano gli scavi e anche un mosaico a Thabarca (Africa del nord), che data al IV secolo. L’altare ornato di un baldacchino, si erigeva all’incirca al centro della chiesa ed era circondato da balaustre. Lo stesso ordine viene ritrovato nell’Italia settentrionale nelle basiliche più antiche ad esempio ad Aquileia e Ravenna, sebbene l’abside si trovi in direzione dell’oriente.
Nella basilica costantiniana di S. Pietro l’altare non era collocato sopra la tomba dell’Apostolo ma bensì nel centro della navata. Nella nuova attuale basilica, l’altare papale si trova invece sulla tomba dell’Apostolo, ma, come nell’antichità, è ancora circondato da un’isola che gli conserva l’ubicazione centrale di una volta.
I fedeli, perciò, nelle basiliche in cui l’ingresso e non l’abside era situato a oriente, se non guardavano l’altare nemmeno voltano a esso le spalle: cosa inammissibile, data la santità dell’altare stesso. Poiché erano nelle navate laterali, avevano l’altare rispettivamente alla loro destra o alla loro sinistra, e formavano un semicerchio aperto a oriente col celebrante e gli assistenti all’incrocio del transetto con l’asse longitudinale della chiesa.
Nelle chiese con l’abside a oriente, tutto dipendeva da come si disponevano i fedeli. Se formavano un ampio semicerchio davanti all’altare situato nella parte absidale della chiesa o presbiterio, anche in questo caso il semicerchio era aperto a oriente; il celebrante non era più all’incrocio dei bracci, bensì nel punto focale, più lontano dai fedeli.
Nel Medioevo, invece, quasi ovunque i fedeli prendono posto nella navata centrale, mentre le navate laterali servono per la processione d’ingresso. In tal modo, dietro al celebrante si snoda il viaggio del popolo di Dio verso la Terra promessa. Meta del viaggio è l’oriente: là è il paradiso, perduto, a cui l’uomo agogna di tornare (cfr. Gen 2,8). Testa di questa teoria sono il celebrante e i suoi assistenti.
In contrasto con la dinamica del viaggio, il semicerchio aperto attua un principio statico durante la preghiera: l’attesa del Signore che, asceso in cielo a oriente (cfr. Ps 67,34), da oriente ritornerà (cfr. At 1,11). Qui, la disposizione a semicerchio aperto è dunque, per così dire, naturale. Quando si aspetta un’alta personalità, si apre un varco e si forma un semicerchio per ricevere nel mezzo la persona attesa.
Analogo pensiero esprime san Giovanni Damasceno (De fide orthod. IV 2): “Nella sua ascensione al cielo, Egli si levò verso oriente. Così Lo adorano gli Apostoli, e ritornerà come essi Lo videro andare verso il cielo. Dice infatti il Signore: Come il lampo parte da oriente e illumina fino a occidente, tale sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo. Poiché l’aspettiamo, adoriamo rivolti a oriente. Degli Apostoli, questa è una tradizione non scritta”.
Partendo da questa veduta, a cominciare pressappoco dal VI secolo, si cominciò a rappresentare l’ascesa del Signore sullo sfondo dell’abside ricordando in tal modo anche la sua gloria nel cielo e la sua seconda parusia (At 1,11). Più tardi il Cristo in trono nella mandorla venne staccato da quella composizione per divenire quale maiestas Domini, circondato dai quattro animali, il quadro absidiale romanico.
Erano presenti nella prima composizione anche gli Apostoli e nel loro mezzo Maria che alzava le mani al cielo in posizione orante. Ancora più tardi si dipingeva sotto la cupola principale il Pantocrator, oppure l’ascesa del Signore, sopra l’altare, senza però unirvi la Madre di Dio che continuava a ornare l’abside.
Può darsi che un passo dell’Apocalisse ne abbia dato l’ispirazione, là dove si legge: “E si aprì il tempio di Dio nel cielo e apparve l’arca del testamento nel tempio (come sappiamo l’arca sta sull’altare nelle chiese d’oriente) ... e un segno grande apparve nel cielo: una donna vestita di sole con la luna ai piedi e sul capo dodici stelle” (Ap 11,19-12,1). È degno di nota il fatto dell’avvicinamento nell’Apocalisse di Maria-Ecclesia con l’arca del testamento, ma colpisce anche che la tenda del tempio, che copre il luogo più sacro, non si apre che in determinate occasioni. Il mistero, il tremendum esige che lo si nasconda, solo in tal modo si risveglia la nostalgia di poterlo contemplare.
“Adesso vediamo come in uno specchio, nell’enigma, ma poi faccia a faccia” (1Cor 13,12).
Lo sguardo levato verso l’oriente non cerca soltanto la gloria di Cristo in cielo e il suo ritorno, ma esprime anche il desiderio della visione che si svelerà alla fine dei giorni, nella gloria avvenire. È quello il significato della prece che si innalza nella Didaché (X 6) Maranatha! che ripete il Veni, Domine Iesu! dell’Apocalisse.
In questo breve studio si è soltanto tenuto conto di alcuni punti importanti che riguardano l’orientamento verso l’est durante la preghiera e il posto del celebrante nella Chiesa dei primi secoli.
Altri dati importanti archeologici sono esposti nel mio libro Liturgie und Kirchenbau (“Liturgia e architettura religiosa”) che fornisce anche le prove necessarie.
È vero che l’uomo moderno non sa più capire bene il significato dell’orientamento della preghiera verso l’est. Per lui il sole che sorge non ha più la forza simbolica che aveva per l’uomo antico. Però, al di sopra dei tempi storici, sta l’importanza della preghiera ad Dominum, verso il Signore da parte del celebrante e dei fedeli, che esprime l’orientamento verso la croce dell’altare e verso l’immagine di Cristo nell’abside, da parte di tutti i presenti, sacerdote e fedeli.

[Klaus Gamber (1919-1989), “Verso il Signore”, trad. it. in Notizie. Periodico dell’associazione italiana Una Voce per la salvaguardia della liturgia latino-gregoriana, edito dalla Sezione di Torino, n. 116, gennaio 1987, pp. 1-4]

Rivolti al Signore

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Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa, i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l’altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo. Certo, l’uso della lingua corrente è consentito, soprattutto per la Liturgia della Parola, ma la precedente regola generale del Concilio afferma: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium 36.1). Non vi è nulla nel testo conciliare sull’orientamento dell’altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l’Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: “L’altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)”. Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l’aggiunta della clausola subordinata “la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile”. In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola “expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l’orientamento fisico dall’orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus popolum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, segni, simboli e parole non possono mai esaurire l’intima realtà del mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la Congregazione ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito. Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant’anni. Sottolinea nel contempo la direzione intima dell’azione liturgica, che non è mai possibile esprimere nella sua totalità per mezzo di forme esteriori. Tale direzione intima è comune al sacerdote e ai fedeli: verso il Padre attraverso Cristo nello Spirito Santo. La risposta della Congregazione dovrebbe ora agevolare un nuovo dibattito più disteso, nel corso del quale sia possibile cercare il modo migliore per mettere in pratica il mistero della salvezza. Tale ricerca va compiuta non condannandosi reciprocamente, ma ascoltando attentamente gli uni gli altri e, fattore ancor più importante, ascoltando la guida intima della liturgia stessa. Non si giunge ad alcun risultato etichettando le posizioni come “preconciliari”, “reazionarie”, “conservatrici” oppure come “progressiste” ed “estranee alla fede”; serve una nuova apertura reciproca alla ricerca del migliore compimento del memoriale di Cristo.
Questo piccolo libro di Uwe Michael Lang, membro della Congregazione dell’Oratorio di S. Filippo Neri a Londra, studia l’orientamento della preghiera liturgica dal punto di vista storico, teologico e pastorale. Mi sembra che questo libro riprenda, al momento propizio, un dibattito che, malgrado le apparenze contrarie, non si è mai spento, neppure dopo il Concilio Vaticano Secondo. Il liturgista di Innsbruck Josef Andreas Jungmann, uno degli artefici della Costituzione del Concilio sulla Sacra Liturgia, si oppose risolutamente fin dal principio al polemico luogo comune in base al quale il sacerdote, in precedenza, celebrava “volgendo le spalle al popolo”; sottolineò infatti come il punto in discussione non fosse il sacerdote con le spalle ai fedeli, ma al contrario il fatto che si voltasse nella stessa direzione dei fedeli. La Liturgia della Parola ha il carattere di proclamazione e di dialogo, al quale possono correttamente appartenere il discorso e la risposta. Nella Liturgia eucaristica, tuttavia, il sacerdote guida il popolo nella preghiera ed è rivolto, insieme ai fedeli, verso il Signore. Per questo motivo, sosteneva Jungmann, la direzione comune della preghiera del sacerdote e del popolo è intrinsecamente confacente e appropriata all’azione liturgica. Louis Bouyer, uno dei massimi liturgisti del Concilio insieme a Jungmann, e Klaus Gamber, ciascuno a suo modo, si sono posti la stessa domanda. Malgrado la loro grande reputazione, in principio non riuscirono a far sentire la loro voce: era troppo forte la tendenza a sottolineare il fattore comunitario della celebrazione liturgica, quindi a considerare assolutamente necessario il fatto che sacerdote e fedeli fossero rivolti l’uno verso gli altri.
In tempi più recenti l’atmosfera si è rilassata ed è stato possibile riprendere le domande che si erano posti Jungmann, Bouyer e Gamber senza essere immediatamente tacciati di sentimenti anticonciliari. La ricerca storica ha reso la controversia meno faziosa, e fra i fedeli cresce sempre più la sensazione dei problemi che riguardano una disposizione che difficilmente mostra come la liturgia sia aperta a ciò che sta sopra di noi e al mondo che verrà. In questa situazione il libro di Lang, piacevolmente oggettivo e assolutamente privo di polemica, è una guida preziosa. Senza avere la pretesa di offrire nuovi e grandiosi spunti, presenta con cura i risultati delle recenti ricerche e offre il materiale necessario a sviluppare un giudizio informato. Il libro è particolarmente prezioso perché mostra il contributo dato al problema della Chiesa d’Inghilterra e tiene nella debita considerazione l’Oxford Movement del XIX secolo, il movimento nel quale maturò la conversione di John Henry Newman. Da queste testimonianze storiche l’autore ricava le risposte teologiche che propone, e spero che il libro, opera di un giovane studioso, possa essere di aiuto nella lotta, necessaria in ogni generazione, per la corretta interpretazione e la degna celebrazione della sacra liturgia. Mi auguro che il libro trovi un vasto pubblico di lettori attenti.

Roma, domenica laetare 2003

[Joseph Ratzinger, Prefazione, in Uwe Michael Lang, Rivolti al Signore. L’orientamento nella preghiera liturgica, trad. it., II edizione rivista e corretta, Cantagalli, Siena 2008, pp. 7-10]

Rivolgiamoci verso il Signore!

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Dopo averci offerto un’edizione francese di Die Reform der Römischen Liturgie, i monaci del Barroux pubblicano ora una seconda opera del grande liturgista tedesco Klaus Gamber, Zum Herrn hin!, sull’orientamento della chiesa e dell’altare. Le argomentazioni storiche proposte dall’autore sono fondate su uno studio approfondito delle fonti, svolto da egli stesso; c’è concordanza con i risultati di grandi eruditi come F.-J. Dölger, J. Braun, J.-A. Jungmann, Érik Peterson, Cyrille Vogel, il R.P. Bouyer, per non citare che alcuni personaggi eminenti.
Ma ciò che costituisce l’importanza di questo libro, è soprattutto il substrato teologico, aggiornato da queste ricerche erudite. L’orientamento della preghiera comune ai sacerdoti e ai fedeli – la cui forma simbolica era generalmente in direzione dell’est, cioè del sole nascente – era concepito come uno sguardo rivolto verso il Signore, verso l’autentico sole. Nella liturgia c’è un’anticipazione del suo ritorno; sacerdote e fedeli gli vanno incontro. Quest’orientamento della preghiera esprime il carattere teocentrico della liturgia; essa obbedisce al monito: Rivolgiamoci verso il Signore!
Tale auspicio è rivolto a tutti noi e mostra, anche al di là del suo aspetto liturgico, come sia necessario che tutta la Chiesa viva e agisca per corrispondere alla missione del Signore.

Roma, 18 novembre 1992

[Card. Joseph Ratzinger, Préface pour l'édition française, in Klaus Gamber (1919-1989), Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]

L'altare verso il popolo. Domande e risposte / 1

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Mosaico di SantApollinare Nuovo (VI sec.): l'Ultima Cena.
Poi venne un altro angelo e si fermò presso l’altare, reggendo un incensiere d’oro. Gli furono dati molti profumi, perché li offrisse, insieme alle preghiere di tutti i santi, sull’altare d’oro, posto davanti al trono” (Ap 8, 3).

Secondo la concezione della Lettera agli Ebrei, il tempio terreno di Gerusalemme e il suo altare erano l’immagine del santuario che è in cielo e in cui Cristo, eterno sommo sacerdote, è entrato (cfr. Eb9,24).
La liturgia celeste e la liturgia terrestre sono una cosa sola. Così, secondo il brano dell’Apocalisse citato in epigrafe, un angelo è fermo presso l’altare d’oro del cielo, con un incensiere d’oro in mano, allo scopo di offrire le preghiere dei fedeli al cospetto di Dio. Anche la nostra offerta terrena non diventa totalmente valida davanti a Dio se non è “condotta dalla mano di un angelo sull’altare celeste”, come è detto nel canone della messa romana.
L’idea secondo la quale l’altare di quaggiù è un’immagine dell’archetipo celeste davanti al trono di Dio, ha sempre determinato sia la sistemazione dell’altare, sia la posizione del sacerdote nei confronti di esso: abbiamo visto che l’angelo che regge l’incensiere d’oro è fermo presso l’altare. D’altro canto, le prescrizioni che Dio ha dato a Mosè (cfr. Es30,1-8) hanno certamente svolto un ruolo anch’esse.
Queste osservazioni preliminari erano necessarie per fare comprendere a che punto siano cambiate le idee attuali circa l’altare. Questo cambiamento non è stato effettuato brutalmente, ma un poco alla volta; si è cominciato già diversi anni prima del Concilio Vaticano II.
Nelle “Istruzioni per la sistemazione delle chiese nello spirito della liturgia romana”(Richtlinien für die Gestaltung des Gotteshauses aus dem Geist der römischen Liturgie), del 1949, Theodor Klauser sostiene che: “Certi segni fanno intravedere che, nella Chiesa futura, il prete si terrà come un tempo dietro l’altare e celebrerà col viso rivolto verso il popolo, come si fa ancora oggi in alcune basiliche romane; l’auspicio, che si percepisce ovunque, di vedere più chiaramente espressa la comunione al tavolo eucaristico, sembra esigere questa soluzione” (n. 8).
Ciò che Klauser presentava allora come auspicabile, come si sa, nel frattempo è divenuto quasi dappertutto la norma. Si pensa di avere fatto rivivere così un uso del cristianesimo primitivo. Ora, come le spiegazioni che seguono dimostreranno chiaramente, si può provare con certezza che non si è mai avuta, né nella Chiesa d’Oriente né in quella d’Occidente, alcuna celebrazione versus populum (verso il popolo), ma che per pregare tutti si volgevano sempre verso l’Oriente, ad Dominum (verso il Signore).
L’idea di un “faccia a faccia” tra il sacerdote e l’assemblea nel corso della messa risale piuttosto a Martin Lutero, che nel suo libretto del 1526 “La messa tedesca e l’ordinazione del culto divino” (Deutsche Messe und Ordnung des Gottesdienstes ), all’inizio del capitolo “Della domenica per i laici”, così scrive: “Noi conserveremo gli ornamenti sacerdotali, l’altare, le luci fino all’esaurimento o fino a quando non riterremo di cambiarle. Lasceremo, tuttavia, che altri possano fare diversamente; ma nella vera messa, fra veri cristiani, occorrerebbe che l’altare non restasse com’è adesso e che il prete si volgesse sempre verso il popolo, come senza alcun dubbio ha fatto Cristo al momento della Cena. Ma questo può attendere”.
Ed ecco che il momento atteso è arrivato…
Per giustificare il cambio di posizione del celebrante in rapporto all’altare, il riformatore si riferiva al comportamento di Cristo all’Ultima Cena. In effetti egli aveva davanti agli occhi le abituali raffigurazioni dei suoi tempi: Gesù in piedi o seduto a metà di una gran tavola, con gli apostoli alla sua destra e alla sua sinistra.
Ma Gesù ha davvero occupato questo posto?
Certamente non avvenne così, poiché sarebbe stato contrario agli usi domestici dell’epoca. Al tempo di Gesù, e ancora secoli dopo, si utilizzava sia una tavola rotonda sia una tavola a forma di sigma (a semicerchio). Il davanti di essa veniva lasciato libero onde consentire il servizio dei piatti. I convitati erano seduti o allungati dietro il semicerchio della tavola. Per fare ciò utilizzavano dei divani o un banco, a forma di sigma. Il posto d’onore non si trovava, come si potrebbe credere, in mezzo, ma a destra (in cornu dextro). Il secondo posto d’onore stava di fronte al primo.
Ritroviamo questa disposizione dei posti, in maniera costante, nelle raffigurazioni più antiche della Cena di Gesù e fino al pieno Medioevo. Il Signore è sempre allungato o seduto dalla parte destra della tavola (cfr. limmagine dapertura). È solo verso il secolo XIII che s’incomincia a imporre un nuovo tipo di raffigurazione: allora Gesù è posto dietro la tavola, in mezzo agli apostoli che lo circondano. È questa l’immagine che Lutero aveva davanti agli occhi.
In effetti, essa ha la parvenza di una celebrazione versus populum. Tuttavia, in realtà non si tratta di niente di simile, poiché è noto che il “popolo” verso cui il Signore avrebbe dovuto volgersi, era assente nella sala della Cena. Ciò che toglie ogni valore all’argomento di Lutero. D’altronde, per quanto ne sappiamo, anch’egli non ha mai preteso che si celebrasse volti verso l’assemblea, come in seguito hanno preso l’abitudine di fare – fra le comunità protestanti – i riformati.

[Klaus Gamber, "L'autel face au peuple. Questions et réponses", in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 19-22) / 1 - continua]

L'altare verso il popolo. Domande e risposte / 2

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La fractio panis, catacombe di San Callisto (Roma)
prima domanda

È possibile. Ma qual era la situazione nella Chiesa primitiva? Dunque i fedeli non erano seduti con il presidente alla “tavola del Signore”?

È opportuno distinguere fra la celebrazione dell’agape – il pasto fraterno – e quella dell’eucaristia, che originariamente seguiva l’agape e più tardi la precedette. Ho trattato il problema in dettaglio nella mia opera Beracha.
Nei primi secoli, quando il numero dei membri della comunità era ancora ristretto, si era conservata – a fedele imitazione dell’Ultima Cena – la medesima disposizione dei posti, tanto più che essa corrispondeva alle usanze dell’epoca. Diverse chiese domestiche della Chiesa primitiva, di cui si sono trovate le fondamenta nelle regioni alpine, lo provano chiaramente. Al centro di un locale relativamente piccolo – circa 5 x 12,5 metri –, si trova un banco in pietra semicircolare, capiente da quindici a venti posti [1].
Nelle città, dove il numero dei fedeli era più elevato, si era costretti ad aggiungere dei tavoli supplementari. Il vescovo e i presbiteri stavano seduti a uno di questi, i fedeli negli altri, uomini e donne separatamente. Nella Lettera ai Galati (2,11-12), l’apostolo Paolo rimprovera all’apostolo Pietro di avere preso cibo con i giudei convertiti, evitando i pagani convertiti.
Mentre per i pasti in comune, le agapi, si stava seduti a delle tavole, per la celebrazione dell’eucaristia ci si alzava e ci si andava a porre dietro il celebrante, che stava all’altare, come prescrive espressamente la Didascalia apostolorum, un’istruzione del II-III secolo, che esigeva ci si volgesse esattamente verso l’Oriente [2].
Con gli sviluppi successivi, una volta soppressi i pasti fraterni – verso il secolo IV –, le tavole sparirono. I fedeli ormai stavano seduti su dei banchi disposti lungo i muri della chiesa. La tavola d’altare, un tempo di legno, divenne un altare in pietra.

[1] Cfr. Klaus Gamber, Das Patriarchat Aquileja und die bairische Kirche (“Il Patriarcato di Aquileia e la Chiesa bavarese”), pp. 22-55.
[2] II, 57, 2-58, 6 (Paderborn, 1906), ed. Funk.

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 23-24) / 2 - continua]

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 3

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Guillaume Durand, Rational des divins offices [Rationale divinorum officiorum]
seconda domanda

Come ci si può opporre agli altari moderni rivolti verso il popolo, quando essi sono stati prescritti dal Concilio e praticamente sono stati introdotti nel mondo intero?

Si cercherebbe invano una prescrizione che imponga di celebrare la santa messa rivolti verso il popolo nella Costituzione sulla sacra liturgia promulgata dal Concilio Vaticano II. Ancora nel 1947, Papa Pio XII, nell’enciclica Mediator Dei (n. 49), sottolineava come si sbagliassero coloro che volessero ridare all’altare la sua antica forma di mensa (tavola). Fino al Concilio la celebrazione verso il popolo non era autorizzata; essa era tuttavia tacitamente tollerata da numerosi vescovi, soprattutto per le messe dei giovani.
Da noi, in Germania, la nuova posizione del sacerdote fece la sua comparsa negli anni 1920 con la Jugendbewegung (movimento della gioventù), allorché si cominciò a celebrare l’eucaristia per piccoli gruppi; Romano Guardini svolse il ruolo di precursore, con le sue messe al castello di Rothenfels. Il movimento liturgico diffuse quest’uso, soprattutto Pius Parsch, che sistemò in questo senso, per la sua “parrocchia liturgica”, una piccola chiesa romanica (Santa Gertrude) a Klosterneuburg, vicino a Vienna.
Questi sforzi vennero infine approvati dall’istruzione Inter œcumenici (1964) della Congregazione dei Riti, che in seguito ha ispirato il nuovo messale. Per le nuove costruzioni vi è prescritto che: “È bene costruire l’altare maggiore separato dal muro, perché si possa facilmente girarvi attorno e vi si possa celebrare verso il popolo; esso sarà posto nell’edificio sacro in modo da essere veramente il centro verso il quale si volge spontaneamente l’attenzione dell’assemblea dei fedeli” (n. 91).
Sfortunatamente, è esatto che i nuovi altari verso il popolo siano stati installati dovunque nel mondo, almeno per quanto riguarda l’area di diffusione della Chiesa cattolica romana. Ma, a rigore, essi non sono prescritti.
Nelle Chiese ortodosse d’Oriente – nelle quali, d’altronde, vi sono alcune centinaia di milioni di cristiani – si continua a rispettare l’uso della Chiesa delle origini, secondo cui il sacerdote che celebra il santo sacrificio è girato, con i fedeli, verso l’abside. Questo vale sia per le Chiese di rito bizantino – greca, russa, bulgara, serba, ecc. – sia per le Chiese dette di rito orientale antico (armena, siriaca, copta).
Che l’altare debba essere scostato dal muro “perché si possa facilmente girarvi attorno”, è un’altra questione. Questa esigenza della Congregazione dei Riti si accorda perfettamente con la tradizione [1].
Per più di dieci secoli, come fino a oggi nelle chiese ortodosse orientali, l’altare è rimasto privo di sovrastrutture. Un cambiamento si produsse nell’epoca gotica, con l’apparizione delle pale. Queste svolgevano in parte il ruolo dei dipinti dell’abside e dei muri, raffigurando le diverse tappe della salvezza: dall’Annunciazione dell’angelo all’Ascensione del Signore.
Mentre nelle piccole chiese gli altari erano spesso addossati al muro dell’abside, nelle grandi chiese, come abbiamo visto, erano posti – fino all’epoca gotica – in mezzo al santuario. Era allora possibile girarvi intorno al momento dell’incensazione, com’è detto nel Salmo 25: “Giro attorno al tuo altare, o Signore, per far risuonare voci di lode e narrare tutte le tue meraviglie”.
Per sottolineare la santità dell’altare, questo – almeno nelle grandi chiese – era generalmente sormontato da un baldacchino in materiale prezioso, poggiante su quattro colonne. Ai quattro lati erano fissate delle cortine; certo in riferimento alla tenda del Tempio di Gerusalemme, che separava il Santo dei Santi (Sancta Sanctorum) dal santuario, come Dio aveva prescritto a Mosè: “Farai il velo di porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto (…). Lo appenderai a quattro colonne di acacia, rivestite d’oro (…). Collocherai il velo sotto le fibbie e là, nell’interno oltre il velo, introdurrai l’arca della Testimonianza. Il velo costituirà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei santi” (Es 26, 31-33).
Come abbiamo visto, nel rito bizantino è l’iconostasi che attua la separazione; ma secondo la concezione ortodossa, anch’essa rappresenta, insieme alle icone, l’Ecclesia cœlestis (la Chiesa del Cielo), che celebra assieme ai fedeli, tanto che essa dev’essere considerata, da quelli che partecipano alla celebrazione, non solo come una separazione, ma anche come un oggetto di contemplazione.
In altri riti orientali non bizantini, l’iconostasi manca; al suo posto vi sono, come presso gli armeni, due tende: una piccola davanti all’altare e una grande che, in alcuni momenti della liturgia della messa, nasconde tutto il coro agli occhi dei fedeli. A questo proposito così dice san Giovanni Crisostomo: “Quando vedi chiudere le tende, pensa che in quel momento il cielo si apre lassù e ne discendono gli angeli” [2].
Secondo la testimonianza di Guillaume Durand, queste tende furono anche usate in Occidente, fino alla metà del Medioevo. Egli parla di tre vela: uno che copre le offerte del sacrificio, il secondo intorno all’altare e il terzo velum sospeso davanti al coro [3].
Mentre la Chiesa delle origini dissimulava l’altare come poteva, ornandolo con tessuti preziosi e con pendoni, ecco che al giorno d’oggi questo stesso altare si trova posto, nudo, in mezzo alla chiesa, esposto a tutti gli sguardi. La sua santità, in quanto luogo delle offerte del sacrificio, si trova così meglio evidenziata? Certamente no. A meno che non si voglia prendere in considerazione – contro tutte le tradizioni – altro che la sua funzione di tavola da pasto e la si voglia rendere manifesta in tal modo.
Allora, certamente, non mi resta che inchinarmi…
Ma, in questo caso, non si tratta più di rendere presente quaggiù il mondo dell’aldilà: si tratta solo dell’uomo e del suo universo. L’universo di Dio, degli angeli e dei santi, diventa marginale: sfiora appena il nostro. Forse, malgrado tutto, ci s’interesserà ancora a un uomo chiamato Gesù e a qualche brano accuratamente selezionato del suo Vangelo!

[1] Il Pontificale romano tradizionale, nel capitolo “Della dedicazione delle chiese”, chiede espressamente che l’altare non sia addossato al muro, ma che si possa girarvi attorno da tutti i lati onde potere compiere in maniera conveniente i riti di consacrazione. Il “messale di san Pio V” (edizione del 1962) indica d’altra parte la maniera di procedere all’incensazione di questo tipo d’altare. Contrariamente a ciò che si ritiene troppo spesso, l’altare così disposto è perfettamente conforme alla tradizione, sebbene con il tardo Medioevo sia stato spesso preferito addossarlo al muro.
[2] PG 62, 29.
[3] Rational, I, 3, n. 35.

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 24-27) / 3 - continua]

Tempo dopo Pentecoste a Le Barroux

Il pensiero monastico di Dom Jean-Baptiste Muard O.S.B.

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La vita di Padre Jean-Baptiste Muard (1809-1854) ci è nota attraverso un certo numero di biografie. Ma qual era il suo pensiero sulla vita monastica, quando nel 1950 fondò una nuova branca della famiglia benedettina, i Benedettini del Sacro Cuore, poi confluiti – nel 1959 – nella Congregazione Cassinese della Stretta Osservanza (in seguito Congregazione Sublacense e al giorno d’oggi Congregazione Sublacense-Cassinese)? La sua morte prematura, l’affiliazione della sua comunità a una congregazione italiana, la perdita del dossier contenente tutti i suoi scritti – riemerso in circostanze fortuite solo nel 1972 –, e una certa evoluzione della sua comunità e delle sue fondazioni nel corso del tempo; tutto ciò ha contribuito a suscitare vari interrogativi. Racchiudendo per la prima volta l’integralità degli scritti sul tema monastico del fondatore del monastero della Pierre-qui-Vire, questo libro cerca di presentare sotto forma di dialogo con il lettore il pensiero originale di Padre Muard sulla vita monastica, così come il Signore gli aveva chiesto di fondarla.

Un moine bénédictin, La pensée monastique du Père MuardÉditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2016, 184 pp., Euro 12,00.

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 4

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Incoronazione della seconda moglie dell'imperatore Ferdinando II,
davanti al jubé della cattedrale di Ratisbona (incisione su cuoio del 1630)
terza domanda

Tuttavia, non vi era già nel Medioevo un altare destinato al popolo, oltre all’altare maggiore, come al giorno d’oggi?

È esatto nella misura in cui, nelle chiese cattedrali e nei monasteri, vi era come regola generale – dopo la fine dell’epoca romanica – un altare destinato al popolo, posto davanti al pontile-tramezzo (jubé). Quest’ultimo era una specie di chiusura del coro, ma un po’ più alta di quella delle chiese primitive, con due entrate che davano sul coro dei canonici o dei monaci, i quali, in tal modo, si trovavano separati dal resto della chiesa. In virtù della croce posta al di sopra di questo altare, o più esattamente sul jubé, tale altare veniva chiamato “altare della croce”.
È su tale altare che, in queste chiese, si celebrava la messa per il “popolo” [1], come ogni altra messa destinata ad avere numerosi partecipanti, come la messa solenne per i funerali oppure, in una chiesa cattedrale, quella per l’incoronazione di un sovrano (cfr. la figura d’apertura). Per di più si predicava dall’alto del jubé. Solo le messe conventuali (solenni) venivano celebrate all’altare maggiore, nel coro.
Dunque, in primo luogo la funzione del jubé non era di elevare una barriera fra il clero e il popolo – e per questo non può essere paragonato all’iconostasi bizantina –, ma era ben diversamente destinato a creare, per i canonici o i monaci, uno spazio apposito in cui si potessero svolgere le funzioni liturgiche in coro – liturgia delle ore e messa conventuale – senza essere disturbati.
Per ragioni sia liturgiche sia architettoniche è stato del tutto irragionevole fare sparire il jubée l’altare della croce, com’è accaduto quasi ovunque in Germania all’epoca dei Lumi, su ordine delle autorità secolari [2].
Come allora si procedette a importanti modifiche architettoniche all’interno delle chiese – onde consentire che i fedeli potessero guardare direttamente l’altare maggiore –, così oggi, in seguito al Concilio, quasi tutte le chiese antiche sono state ritoccate con dei lavori di “rinnovamento”.
Chi percorra oggi il mondo e visiti le chiese, scopre, per la sistemazione del santuario, le soluzioni più singolari. È così che, soprattutto in Italia, quando è stato possibile, gli altari barocchi sono stati privati della loro tavola d’altare, rimpiazzata dai seggi del celebrante e dei suoi assistenti. Si può pensare che sia la meno felice delle soluzioni, visto che la pala perde così la sua antica funzione di riferimento al sacrificio eucaristico per vedersi “degradata”, al punto da servire quale schienale dei preti.
Ma nella maggior parte dei casi, l’antico altare maggiore, con il suo tabernacolo, non serve più che a conservare la santa comunione. Occorre allora rassegnarsi al fatto che il sacerdote, il quale sta all’altare rivolto verso il popolo, giri costantemente la schiena al tabernacolo, al quale sin qui erano fissati gli occhi dei fedeli in preghiera. All’occasione, è la corale parrocchiale che s’installa sui gradini dell’altare maggiore, con i cantori che volgono anch’essi le spalle al tabernacolo e si servono della tavola d’altare per poggiarvi i loro diversi accessori.
Ecco perché, quando le considerazioni artistiche lo hanno permesso, l’altare maggiore è stato totalmente soppresso, per conservare l’eucaristia in un tabernacolo murale laterale. Si è dunque immediatamente posto il problema di come occupare lo spazio così liberato dell’abside. Sono state applicate varie soluzioni. Spesso vi si è installato l’organo, con la sua cassa decorativa, oppure, per la maggior parte del tempo, la corale parrocchiale. Oppure si è semplicemente appesa l’antica pala d’altare o un pendone di valore al muro dell’abside, come fossero degli ornamenti.
In definitiva, nessuna di queste soluzioni è soddisfacente, poiché, installando un nuovo altare, per di più dall’apparenza molto modesta, si è fatto sparire il centro di gravità spaziale costituito dall’altare maggiore, così come era stato concepito dall’architetto che aveva costruito la chiesa. Senza alcun dubbio, Alfred Lorenzer ha ragione allorché scrive: “Il significato dell’altare, a questo punto, fa parte integrante della chiesa (…), che lo spostamento di questo ‘centro di gravità spaziale’ dovrebbe indurre a elaborare un piano interamente nuovo” [3].
Ciò diventa di un’evidenza impressionante nelle grandi chiese, come per esempio nella cattedrale di Spira, dove lo sguardo di coloro che entrano si posa subito sull’antico altare maggiore sormontato dal suo baldacchino. Oggi, erra nel vuoto. La tavola d’altare installata nel coro, malgrado le sue dimensioni, si nota appena in questo spazio tutto volto in altezza, e l’altare verso il popolo, alcuni gradini più in basso, non costituisce affatto un “centro di gravità spaziale”.

quarta domanda

Nell’Handbuch der Liturgie für Kanzel, Schule und Haus (Manuale di liturgia per la cattedra, la scuola e la casa) di P. Alfons Neugart (1926), si legge: “Nella basilica della Chiesa primitiva, l’altare era posto in mezzo all’abside del coro e il prete celebrante si metteva dietro di esso, rivolto verso il popolo. Sull’altare non vi erano né croce né candele. I seggi del vescovo e degli ecclesiastici erano disposti tutt’intorno, lungo il muro. È solo più tardi che l’altare venne posto contro il muro, come oggi”. È esatto?

Ciò che è esatto è che nei primi secoli, i seggi dei vescovi e dei sacerdoti erano posti lungo il muro dell’abside e non ai lati dell’altare; nei territori greci essi erano spesso nettamente rialzati su diversi scalini, di modo che il vescovo, assiso sul suo trono, potesse essere visto da tutti e meglio ascoltato al momento del suo sermone, che un tempo pronunciava dal suo seggio. Il seggio centrale era sempre riservato al vescovo, come accade ancora oggi in Oriente.
È anche esatto che a quel tempo sull’altare non vi fosse né croce, né candele, né leggio per il messale, ma solo il calice e la patena con le offerte. Lo si può constatare nelle raffigurazioni medievali della messa. Se fino a un’epoca recente si usava decorare con dei fiori il pavimento della chiesa, l’altare non veniva mai decorato.
Ecco perché in genere gli altari erano piccoli, con una tavola che raramente raggiungeva un metro quadrato. Nel chiostro della cattedrale di Ratisbona vi è, per esempio, un piccolo altare massiccio in pietra, che risale a un’epoca molto antica; tuttavia, si trova anche – nell’“antica cattedrale” – un grandissimo altare (due metri e dieci per un metro e quaranta), che risale probabilmente al secolo V e rappresenta una “confessione”, vale a dire che faceva parte della tomba di un martire. Ecco spiegata la sua enorme dimensione [4]! La limitata superficie della maggior parte degli altari lasciava posto solo per le offerte del pane e del vino: questa particolarità sottolineava significativamente il carattere sacrificale della messa, come accadeva per i sacrifici dei giudei e dei pagani, nei quali solo le offerte propriamente dette trovavano posto sull’altare.
Gli altari a forma di tavola di grandi dimensioni erano rari nei tempi antichi. Eppure, al pari degli altri che abbiamo menzionato, anch’essi erano riccamente ornati di stoffe preziose che cadevano dai quattro lati fino a terra, di modo che le tavole che ricoprivano non si presentavano come tali. Più tardi, in molti luoghi, si dispose sul lato anteriore degli altari un pendone di stoffa, di legno o di metallo riccamente ornato. Così che non si può affermare che il carattere di pasto della messa sia stato sottolineato dagli altari a forma di tavola.
Parleremo in seguito più a fondo della posizione del sacerdote all’altare ai tempi della Chiesa primitiva. Ora ricordiamo solo quanto scriveva sulla rivista Der Seelsorger, nel 1967, quindi poco dopo il Concilio, il P. Josef A. Jungmann, autore della celebre opera Missarum sollemnia: “L’affermazione spesso ripetuta che l’altare della Chiesa primitiva supponesse sempre che il prete fosse rivolto verso il popolo, si rivela essere una leggenda”.
Inoltre, Jungmann mette in guardia contro il pericolo che, auspicando l’adozione dell’altare verso il popolo, “se ne faccia un’esigenza assoluta e, infine, una moda alla quale ci si sottometta senza riflettere”. Secondo lui, la ragione principale di questa raccomandazione di celebrare rivolti verso il popolo è la seguente: “Vi è qui, anzitutto, l’accento esclusivo che al giorno d’oggi si ama tanto mettere sul carattere di pasto dell’eucaristia”.
Da parte sua, il cardinale Joseph Ratzinger ha sempre più messo in guardia, in questi ultimi anni, contro il rischio di considerare la liturgia sotto il solo aspetto di “pasto fraterno” [5].

[1] Ma “spalle al popolo”.
[2] Sul punto, cfr. l’articolo di K. Gamber, in Das Münster, 1985. 
[3] Das Konzil der Buchhalter (Il concilio dei contabili), p. 200. 
[4] Cfr. K. Gamber, Ecclesia Reginensis, pp. 49-66.
[5] Cfr. Entretiens sur la foi, Fayard, 1975, p. 158.

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 27-32) / 4 - continua]

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 5

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quinta domanda

Da tempo immemore, non celebra forse il Papa rivolto verso il popolo, e in San Pietro, a Roma, non c’è un altare isolato su di un podio, come nella maggior parte delle chiese moderne?

Sembrerebbe esatto che l’idea di un altare centrale isolato su un podio sia, in qualche modo, già prefigurata nella chiesa barocca di San Pietro (non tuttavia nella chiesa costantiniana che l’ha preceduta): l’altare papale, leggermente sopraelevato, si trova isolato nel mezzo della chiesa, proprio al di sotto della cupola centrale, posta esattamente sopra la confessione con la tomba del Principe degli Apostoli; esso è facilmente visibile da ogni parte, sia dalla navata sia dai due bracci del transetto.
Chi un tempo partecipava alle messe papali, notava che il Papa non era posto, come nel resto della cristianità, davanti all’altare, bensì dietro. Alcuni liturgisti ne deducevano, in maniera sconsiderata, che in tal modo si fosse conservata la posizione verso il popolo, che il celebrante avrebbe avuto nella Chiesa primitiva.
In realtà si tratta, come andremo a dimostrare, dell’orientamento nella preghiera, poiché la chiesa di San Pietro non ha, come la maggior parte delle chiese antiche, l’abside a Est, ma a Ovest.
Tuttavia, come dimostrano le foto scattate prima dell’avvento di Paolo VI, che intraprese in seguito la trasformazione dell’altare papale, i fedeli presenti potevano appena intravedere il Papa, a causa dell’enorme dimensione dei candelieri e della croce d’altare. Non era dunque possibile, a stretto rigore, parlare di celebrazione versus populum. Né si trattava di un privilegio del Papa, come talvolta è stato affermato. Vi sono infatti a Roma altre chiese la cui abside è posta a Occidente e in cui il celebrante è ugualmente posto dietro l’altare.
Nelle chiese moderne, costruite dopo il Concilio, si trova spesso, come a San Pietro, un altare isolato su un podio, ma al quale manca il suo coronamento: il baldacchino. Poiché si tratta di un podio isolato in mezzo alla chiesa, e dunque sprovvisto di qualsivoglia orientamento – esso è circondato dalle fila di sedie dei fedeli –, è difficile trovare un posto adeguato per la croce d’altare, di cui abbiamo esposto in precedenza la funzione di punto di riferimento, croce che tuttavia continua a essere richiesta dalle nuove regole liturgiche. Nell’Institutio generalis del nuovo messale, è detto: “Del pari, sull’altare o in prossimità di esso, vi sarà una croce, ben visibile dall’assemblea” (n. 270).
Era questo il caso dell’“altare della croce” medievale [1], ma non lo è più quando, per soddisfare in una maniera o in un’altra questa prescrizione, si finisce con l’usare una piccola croce o a fianco dell’altare o poggiata su di esso.

sesta domanda

Era dunque una cosa buona che il sacerdote pregasse, come accaduto finora, in direzione di un muro? Molto meglio vederlo girato verso l’assemblea!

Allorché si pone davanti all’altare, il sacerdote non prega in direzione di un muro, ma insieme a tutti coloro che sono presenti, prega in direzione del Signore. Tanto più che fino ad adesso la cosa che più importava non era tanto di realizzare una qualche comunione, bensì di rendere il culto a Dio, tramite la mediazione del sacerdote, che rappresentava i partecipanti ed era unito ad essi.
Parlando della direzione della preghiera, sant’Agostino, vescovo di Ippona, scrive: “Quando ci alziamo per pregare, ci volgiamo verso l’Oriente (ad orientem convertimur), da dove si alza il cielo. Non perché Dio si troverebbe solo lì, non perché Egli avrebbe abbandonato le altre regioni della terra […], ma perché lo spirito sia esortato a volgersi verso una natura superiore, e cioè verso Dio” [2].
Questo spiega perché dopo il sermone, i fedeli si alzavano per la preghiera e si volgevano verso Oriente. Sant’Agostino li invitava spesso a farlo alla fine dei suoi sermoni, impiegando quale formula di circostanza le seguenti parole: “Conversi ad Dominum…” (rivolti al Signore).
Possiamo qui ricordare le parole di san Paolo. Conscio che “finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione” egli preferisce essere “in esilio dal corpo e abitare presso il Signore” (ad Dominum) (2 Cor 5, 6-8).
Perciò volgersi verso il Signore e guardare a Oriente era per la Chiesa primitiva una sola e medesima cosa.
Nella sua opera fondamentale Sol salutis (1920), Joseph Dölger si dice convinto che la risposta del popolo “Habemus ad Dominum” (sono rivolti al Signore) al richiamo del sacerdote “Sursum corda” (in alto i nostri cuori!), significasse anche che ci si volgeva verso Oriente, verso il Signore (p. 256).
A questo proposito, Dölger fa osservare che certe liturgie orientali prevedono espressamente questo invito, con un appello espresso del diacono prima della preghiera eucaristica (anafora) (p. 251). È il caso dell’anafora copta di san Basilio, che inizia così: “Accostatevi, voi uomini, mantenetevi rispettosi e guardate a Oriente!”; e anche dell’anafora di san Marco, in cui lo stesso appello (“Guardate a Oriente!”) è posto nel mezzo della preghiera eucaristica, prima del passaggio che conduce al Sanctus.
La breve descrizione liturgica del secondo libro delle Costituzioni apostoliche – un’istruzione del IV secolo –, dice anch’essa che ci si alza per pregare e ci si volge verso Oriente [3]. L’ottavo libro ci riporta l’appello corrispondente del diacono: “Tenetevi in piedi verso il Signore!” [4]. Come si vede, anche qui vi è il parallelismo fra il guardare a Oriente e il volgersi verso il Signore.
L’usanza della preghiera in direzione del sol levante è immemore, come ha dimostrato anche Dölger; la si ritrova presso gli ebrei e presso i romani. È così che il romano Vitruvio scrive, nel suo studio sull’architettura: “I templi degli dei devono essere posizionati in modo tale che […] l’immagine che è nel tempio guardi verso ponente, affinché coloro che andranno a sacrificare siano rivolti verso Oriente e verso l’immagine, di modo che, nel pregare, guardino sia il tempio sia la parte del cielo che è a levante, mentre le statue sembrano levarsi insieme al sole per guardare coloro che le pregano nei sacrifici” [5].
Anche per Tertulliano (c. 200) la preghiera verso Oriente va da sé. Nel suo piccolo libro Apologeticum, egli ricorda che i cristiani “pregano in direzione del sol levante” (cap. 16). Questo orientamento della preghiera è stato evidenziato molto presto nelle case, con una croce sul muro. Se ne trova una in un locale di un piano superiore di una casa di Ercolano, seppellita dall’eruzione del Vesuvio del 79 [6].

[1] Posto davanti al jubé.
[2] PL, 34, 1277. 
[3] Cap. 57, 14, ed. Funk, p. 165. 
[4] Cap. 12, 2, ed. Funk, p. 494. 
[5] I, libro 4, cap. 5, ed. E. Tardieu et A. Cousin fils, p. 173. 
[6] Cfr. E. C. Conte Corti, Vie, mort et résurrection d’Herculanum et de Pompéi, fig. 29.

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 32-35) / 5 - continua]    

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 6

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Sant'Erardo celebra la Messa
(Evangeliario dell'Abbadessa Uta, sec. XI)
settima domanda

Tuttavia ci sono degli studi, come quello rinomato del prof. Otto Nussbaum, nei quali è scientificamente dimostrato che sin dai tempi più remoti ci sono state delle celebrazioni verso il popolo, e che queste fossero anche più antiche.

Nel suo studio di grande respiro, Der Standort des Liturgen am christlichen Altar (il posto del liturgo all’altare cristiano), apparso nel 1965, Nussbaum scrive: “Quando comparvero gli edifici cultuali propriamente detti, non vi erano delle regole precise che fissavano da che parte dell’altare dovesse mettersi il liturgo. Egli poteva rimanere sia davanti sia dietro l’altare” (p. 408). Egli ritiene che la celebrazione verso il popolo sia stata preferita fino al VI secolo.
Tuttavia Nussbaum non distingue a sufficienza tra le chiese con l’abside a Est e quelle a Ovest e la cui entrata era dunque a Est. Quest’ultimo orientamento è quasi esclusivo delle basiliche del IV secolo, specialmente quelle fatte erigere dall’imperatore Costantino e da sua madre Elena, come per esempio la chiesa di San Pietro a Roma.
Ma, dall’inizio del V secolo, san Paolino da Nola indica come abituale (usitatior) l’abside a Est [1]. In effetti, le basiliche con l’entrata a Est si trovano soprattutto a Roma e nell’Africa del Nord, mentre sono relativamente rare in Oriente (a Tiro e ad Antiochia).
L’entrata a Oriente (basiliche costantiniane) imitava la disposizione del Tempio di Gerusalemme (cfr. Ez 8, 16), come di altri templi antichi, le cui porte aperte lasciavano entrare la luce del sol levante, che faceva scintillare all’interno la statua del dio.
Nelle basiliche cristiane con l’entrata a Est, il celebrante era obbligato a rimanere normalmente davanti al lato “posteriore” dell’altare, al fine di essere rivolto a Oriente al momento dell’offerta del Santo Sacrificio, mentre nelle chiese con l’abside a Est, egli rimaneva “davanti” all’altare (ante altare), quindi con le spalle all’assemblea.
Per il fatto che in alcune di queste ultime basiliche vi fosse posto dietro l’altare per il celebrante, si è talora dedotto che costui si sarebbe posto da questo lato e che sarebbe stato dunque rivolto verso il popolo – in particolare quando c’era inoltre, al fondo dell’abside, un banco per i sacerdoti, con un trono per il vescovo.
Si tratta di una conclusione manifestamente erronea – adottata peraltro da Nussbaum –, come si può dimostrare in maniera irrefutabile con l’aiuto delle risultanze degli scavi archeologici [2]. Diversamente, perché si sarebbero costruite queste chiese esattamente in direzione dell’Est?

[1] Ep. 32, 13 (PL 61, 337). 
[2] Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau (Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 16-18.

[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 36-37) / 6 - continua]

L’altare verso il popolo. Domande e risposte / 7

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Mosaico dell'Ecclesia materBasilica paleocristiana
proveniente da pietra tombale di Tabarka, in Tunisia (sec. IV-V).
L'altare è al centro della navata.
ottava domanda

Quando il sacerdote si trovava posto “dietro” l’altare, nelle chiese che avevano l’abside a Occidente, come San Pietro a Roma, ciò non costituiva, malgrado tutto, una celebrazione rivolti al popolo?

No! In effetti, durante la preghiera eucaristica (canon missæ), non solo il celebrante, ma anche i fedeli erano rivolti verso l’Oriente. Come ha fatto osservare san Giovanni Crisostomo [1], nei tempi antichi i fedeli stendevano le mani nel corso della preghiera, al pari del sacerdote (cfr. in seguito l’illustrazione di corredo alla decima domanda). Tutti guardavano in direzione delle porte aperte della chiesa, da dove penetrava la luce del sol levante, simbolo di Cristo resuscitato che ritorna.
Al di là della particolare venerazione per il sol levante che aveva il costruttore di queste basiliche, l’imperatore Costantino, certamente ha avuto la sua influenza questo brano del profeta Ezechiele (43, 1-2): “Mi condusse allora verso la porta che guarda a Oriente ed ecco che la gloria del Dio d’Israele giungeva dalla via orientale”. Così, con le porte della basilica aperte sull’Oriente, si attendeva che il Cristo venisse a partecipare alla celebrazione dell’eucaristia, come dopo la sua resurrezione era apparso più volte ai suoi discepoli durante il pasto (cfr. Lc 24, 36-49; Gv 21; At 1, 4).
All’origine i fedeli – donne e uomini separati – non stavano nella navata centrale, ma in quelle laterali [2], il cui numero poteva perciò arrivare fino a sei nelle grandi basiliche (quelle del Laterano e di San Pietro, a Roma, ne hanno solo quattro). In definitiva, questo modo di prendere posto nelle navate laterali corrispondeva all’abitudine di fermarsi lungo i muri laterali delle piccole chiese della cristianità primitiva. Questo è ancora oggi l’usanza nelle chiese d’Oriente: la navata o lo spazio centrale sotto la cupola rimangono liberi per le funzioni di culto. I fedeli anziani prendono posto su delle sedie (stasidien) lungo i muri della chiesa e nelle navate laterali, gli altri assistono all’ufficio in piedi. In Oriente, la posizione del corpo più conveniente per la partecipazione liturgica, è quella in piedi, e non l’inginocchiarsi, com’era da noi una volta; tale posizione esige una grande disciplina fisica, soprattutto nel corso di uffici che si prolungano.
Come si evince da alcuni scavi e dalle raffigurazioni che sono state trovate (cfr. qui l’immagine d’apertura), nelle basiliche costantiniane e nord-africane l’altare era quasi al centro della navata. Esso era attorniato da ogni lato da un recinto e, in genere, era sormontato da un baldacchino [3]. Il coro dei cantori (schola cantorum) prendeva posto davanti al celebrante. Nelle chiese di Ravenna, benché fossero tutte orientate, si conservò per lungo tempo questa disposizione dell’altare e della schola in mezzo alla navata [4]: la circostanza è attestata fino al secolo VIII.
Anche nella chiesa costantiniana di San Pietro, a Roma, l’altare non si trovava, come si potrebbe pensare, al di sopra della tomba dell’Apostolo, ma quasi al centro della navata. Là dov’era sepolto il Principe degli Apostoli, vi era una “memoria” senza altare, sormontata da un baldacchino a colonne, come si può vedere in una raffigurazione molto antica, quella dello scrigno d’avorio di Pola (cfr. l’immagine qui al termine). La supposizione spesso avanzata che un tempo vi fosse un altare maggiore mobile, là ove i pellegrini entrano ed escono per visitare la tomba dell’Apostolo, non è stata provata.
Poiché nella basiliche con l’abside a Occidente e l’altare in mezzo alla navata centrale, i fedeli si disponevano, come abbiamo visto, lungo le navate laterali – fra le cui colonne vi erano, peraltro, dei tendaggi che si aprivano durante la Messa –, di fatto non volgevano le spalle all’altare. Ciò che del resto non sarebbe potuto nemmeno essere supposto, considerato il rispetto che si portava alla santità dell’altare. Essi potevano girarsi senza difficoltà verso l’Oriente – in direzione dell’entrata – con una leggera rotazione del corpo.
Anche nel caso, inverosimile, che nel corso della preghiera eucaristica i fedeli non avessero guardato verso l’entrata, ma verso l’altare, rimane il fatto che, anche così, non si sarebbe potuto verificare il faccia a faccia tra il celebrante e l’assemblea, poiché, come abbiamo già detto, nei tempi antichi l’altare era nascosto dalle tende.
A partire dal Medioevo, l’altare di queste basiliche venne generalmente trasferito verso l’abside. Nella chiesa di San Pietro ciò avvenne, come si sa, verso il 600, durante il pontificato di san Gregorio Magno, il quale apportò allo stesso tempo importanti modifiche al coro e fece costruire una cripta circolare che permettesse ai pellegrini di recarsi liberamente alla tomba dell’Apostolo, senza dovere passare per il presbiterio (cfr. l’immagine qui al termine).
In seguito il popolo si dispose via via nella navata. A un’epoca – oggi impossibile da determinare – in cui nelle basiliche costantiniane, gli assistenti smisero di volgersi verso l’Oriente, per rimanere rivolti all’altare, si giunse a una parvenza di celebrazione “rivolti versi il popolo”.

[1] PG 62, 204. 
[2] Quest’affermazione, che rischia di sorprendere il lettore non avvertito, è tuttavia pienamente fondata. Consideriamo a titolo d’esempio lo schema della chiesa di San Clemente a Roma. Lo spazio centrale davanti all’altare è occupato dalla schola cantorum (recinto riservato ai cantori) e i fedeli prendono posto nelle navate laterali. Notiamo tuttavia una diversa ipotesi avanzata dal prof. Cyrille Vogel, che nel caso di una basilica in cui i fedeli sarebbero, di fatto, nella navata, ritiene che “a Roma, verso la metà del secolo V, la conversio ad orientem (rivolgersi a Oriente), implicando una aversio a mensa (volgere le spalle all’altare), non era o non era più in uso presso i fedeli” (“L’Orientation vers l’est du célébrant et des fidèles pendant la célébration eucharistique”, in L’Orient Syrien, vol. IX, 1964, p. 29).
[3] Sempre a titolo d’esempio, si consideri il piano della chiesa di Sabratha, in Libia. Il celebrante, rivolto a Oriente, tiene le spalle all’abside, rivolto alle porte della chiesa. I fedeli non sono posizionati davanti a lui – non ne avrebbero lo spazio –, ma nelle navate laterali. Essi non hanno alcuna difficoltà a rivolgersi verso l’Oriente, come il celebrante.
[4] Cfr. K. Gamber, Liturgie und kirchenbau(Liturgia e costruzione delle chiese), pp. 132-136.

Abside dell'antica chiesa di San Pietro, a Roma, prima della sua ricostruzione durante il
pontificato di san Gregorio Magno (ricostruzione in base alla placca d'avorio di Pola).
Ricostruzione dell'altare di San Pietro, a Roma, durante il pontificato di
san Gregorio Magno
 (c. 600), secondo Rohault de Fleury, La messe, II, Confessions,
tav. CXXXI. 
Davanti all'altare a baldacchino, una specie d'iconostasi.
[Klaus Gamber, “L’autel face au peuple. Questions et réponses”, in Tournés vers le Seigneur!, Éditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 1993, pp. 19-55 (pp. 37-43) / 7 - continua]

Padre Muard e san Benedetto

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Fra tutte le regole antiche, per noi la Regola di san Benedetto racchiude tutte le condizioni desiderabili. Essa si presenta come la figlia più perfetta delle prime regole orientali, come la madre di tutte le altre in Occidente, come il codice sacro che regge da quattordici secoli il mondo monastico, come la più venerabile di tutte per la profonda saggezza e l'eminente santità che brilla in tutte le sue pagine, per la perfezione della vita religiosa che essa stabilisce, per il suo insieme divinamente ordinato, per i suoi mirabili dettagli, come la più illustre per il numero infinito di santi di cui essa ha arricchito il Cielo, per i servizi immensi che essa ha reso alla Chiesa e al mondo, soprattutto nei secoli d'ignoranza e di barbarie durante i quali essa ha salvato dalla completa rovina le sante tradizioni del passato, le preziose opere dei santi Padri, i tesori letterari dell'antichità, offrendo loro asilo nei suoi chiostri, per i benefici che essa ha diffuso sulla società coltivando le arti, le scienze e finanche l'agricoltura, insegnandole ai popoli e impiegando i prodotti che essa ne traeva per nutrire un numero infinito di poveri, nel fondare e sostenere un gran numero di utili istituti, e particolarmente di scuole, di modo che si può dire che durante molti secoli l'Ordine di san Benedetto è stato la provvidenza della società.
Aggiungete a questo che la Regola di san Benedetto è la fonte da cui sono venuti ad attingere tutti i fondatori di Ordini sin dai tempi di questo grande santo, e che quasi tutte le società religiose che sono fiorite nelle epoche successive e quelle che ai giorni nostri fanno l'edificazione del mondo e l'ornamento della Chiesa cattolica, si gloriano di avere san Benedetto per padre, in maniera tale che si può dire che quasi tutto il bene operato dagli Ordini religiosi nella Chiesa di Dio - che è immenso - sgorga dalla Regola di san Benedetto come dal suo principio.
Inoltre questa Regola, secondo la credenza dei benedettini, è divina: essa è stata dettata al loro santo fondatore da un angelo. Essa è stata lodata e approvata da uno dei più illustri e più santi pontefici che abbiano occupato la cattedra di san Pietro, san Gregorio Magno. Essa ricevette la conferma di privilegi assai estesi da un gran numero di sovrani pontefici. (E lo stesso Dio, secondo la testimonianza del medesimo san Gregorio, ha ben voluto accordare a san Benedetto, tramite il ministero di un angelo, dallo stesso luogo in cui scriviamo queste righe, dei privilegi per il suo Ordine infinitamente preziosi).

[Dom Jean-Baptiste Muard O.S.B. (1809-1854), cit. in Un moine bénédictin, La pensée monastique du Père MuardÉditions Sainte-Madeleine, Le Barroux 2016, pp. 55-56, trad. it. di fr. Romualdo Obl.S.B.]
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